Вячеслав Иванов. Собрание сочинений в 4 томах. Том 4.

LERMONTOV

ЛЕРМОНТОВ

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I.

Michail Lèrmontov è il solo vero e proprio romantico fra i grandi scrittori russi del secolo scorso: ben diverso pertanto dal suo sol centrale e primo motore Aleksàndr Pùškin, di cui pur sempre rimase discepolo, non solo nell'arte di verseggiare od in quella di plasmare caratteri, ma perfino nell'assidua ricerca di maggior precisione e sobrietà dell'eloquio in genere e nel prediligere la nudità disadorna della prosa narrativa in particolare; discepolo altresì geniale ed in nessun modo soltanto discepolo, non mai giunto però, se non altro nelle rime, a quell'armonia e perfezione che contraddistinguono l'opera del maestro.

Era parso pure che questi aderisse da principio al romanticismo; in realtà s'adattava piuttosto che assimilarsi alla corrente in voga che gli agevolava opportunamente l'evasione dai boschetti posticci del Settecento francese, le cui garbatezze, arguzie e regole d'arte ebbero determinata la sua iniziale formazione letteraria. D'altronde cercò nelle opere dei novatori stranieri innanzi tutto modelli d'una forma novella, campioni di ritmo e di stile, di composizione e d'intonazione poetica, non già un nuovo atteggiamento di fronte ai problemi della vita e del pensiero. Tutt'altra appare l'indole di quel genuino romantico ch'era il Lèrmontov; la naturale predisposizione di costui faceva si che, studiando da ragazzo gli scritti della scuola ormai trionfante, gli pareva d'udire il linguaggio del proprio io, impaziente d'esprimere tanti turbamenti occulti e slanci inenarrabili.

II.

Il romanticismo non ha mai potuto prendere radice nel suolo russo. Certe premesse storielle che ne avevano cagionata la fioritura nell'Occidente europeo mancavano in Oriente; vi mancavano quelle vaghe rimembranze d'un medio evo misticamente ed amorosamente esaltato, donde nacquero le prime fantasime e nostalgie romantiche. Lo spirito ascetico dell'austera pietà bizantina impregnava di sacro incenso l'atmosfera del popolo minorenne: ogni moto passionale veniva esorcizzato, ogni ardimento spontaneo giudicato a norma dei precetti d'ubbidienza e d'umiltà; l'eroismo stesso suscitava diffidenza qualora non fosse ritenuto suscettibile d'esser canonizzato quale cristiano martirio. Cosi s'è formata l'anima russa, per secoli sballottata tra gli estremi, divisa fra il cielo e la zolla, fra

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la fede intransigente e l'oscura tentazione d'una rivolta assoluta. Essa si mostra tuttora troppo mistica o troppo scettica da appagarsi d'una via media, egualmente distante dalla realtà divina e da quella umana. Or tale è appunto l'attitudine del romanticismo, le cui ceree ali si fondono sotto i raggi del sommo sole e vengono rivendicate dalla terra ch'esse hanno temerariamente rinnegata, senza poter rinnegare la propria pesantezza terrena.

Come si concilia con siffatta mentalità la tendenza prettamente romantica del Nostro? Non era forse un'anima russa la sua? Scrive egli stesso, in età di diciassette anni, guidato dal sicuro presentimento d'un gran destino, d'una vita burrascosa e d'una precoce morte :

Io no, non sono Byron, ma un eletto
da lui diverso e ancora ignoto al mondo;
son, come lui, bandito e vagabondo,
ma russo è il cuore che mi batte in petto;
io cominciai più presto, e avrò finito
ben presto il poco che potrò creare...

Mette a confronto l'anima sua («anima» si legge nel testo originale, non «cuor che batte»)* con quella del bardo britannico e la trova diversa, come diversa è l'indole di ambedue le nazioni; l'esser consostanziale con la propria stirpe gli assicura l'originalità del canto al quale s'accinge. Senonché, come solo l'ombra proiettata da un corpo ce ne fa percepire quasi tangibilmente la concretezza, cosi pure codesta professione, altrettanto sincera quanto profonda , ci sembrerebbe pienamente adeguata solo se fosse seguita dalla confessione faustiana, valida a riguardo di ciascun vero e sincero romantico, sopra la convivenza di due anime nel medesimo petto. L'animo diviso e tormentato di Lèrmontov agognava ognora, senza mai raggiungerle, l'armonia, l'unità, l'integrità.

III.

Eppure non s'illudeva sentendosi intimamente unito al suo popolo: lo dimostrò l'unanime ed entusiastico consenso tributatogli appena uditi i primi accenti della sua voce penetrante, inconfondibile, ora vibrante d'una passione sostenuta, ora fredda e sdegnosa, ora dolce, accarezzante, incantatoria; e questa immediata ed amorevole comprensione si chiari e s'affermò nell'andar del tempo, e la gloria del poeta attechí ed invigorì, come una quercia robusta, per i cento anni ormai trascorsi dopo il duello fatale, non sconquassata da vari mutamenti d'idee direttrici e di valutazioni estetiche. Le sue rime si sono impresse nella memoria delle

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generazioni ed esercitano tuttora il loro fascino singolare, che s'avvicina ad un prodigio magico, come se di tanto in tanto si confondessero con un canto lontano di spiriti.

Lèrmontov non fece scuola, perché non aveva da tramandare alcun nuovo principio di forma poetica a uso degli artieri, ne alcun messaggio alla schiera fervente e disorientata di coloro che sospiravano di diventare artefici o pionieri d'un mondo avvenire. Il che non toglie che l'eroe, in preda alla contenuta e diaccia disperazione, di quel suo capolavoro di prosa ch'egli intitolò ironicamente L'eroe del nostro tempo, riviva, più pensoso e più sinistro, nel protagonista (Stavrògin) del romanzo di Dostoèvskij I dèmoni (ossia Gli ossessi). Sospinto sulle prime dall'emulazione con alcuni poeti che s'ispiravano alle medesime idealità romantiche, finalmente a solo a solo col suo pensiero, Lèrmontov evocò dal fondo della propria personalità un mondo stranamente e quasi minacciosamente isolato, come un castello fosco in mezzo al mare, che la nazione riconoscente annovera fra le gemme del suo patrimonio spirituale.

IV.

Il suo amore verso la patria è intenso, austero, chiaroveggente. Egli stesso, meditabondo e malinconico, lo definisce «strano». Del resto era avvezzo a scrutare in fondo ad ogni affetto gli elementi del binomio catulliano: odi et amo. Non si sommetteva all'impero di alcuna divinità, neanche alla signoria d'Amore, senza una accanita lotta. Nelle esperienze sentimentali il sognatore diventava investigatore acutissimo della realtà nuda e cruda, ancorché tale ricerca gli costasse una ferita di pili dopo tante dolorose delusioni. Pure quello «strano» amore è irto di contraddizioni, che hanno il merito di riflettere altrettante tendenze contraddittorie inerenti al carattere e al destino russo. Confessa di non curarsi affatto delle glorie guerresche del passato, ne dei recenti trionfi delle armi patrie, ottenuti a prezzo di sangue, ma d'aver care la fredda monotonia della materna terra, l'immensità delle sue steppe foreste fiumane, l'umiltà dei poveri villaggi sparsi sulla triste pianura e la baldoria di contadini ubriachi in una rustica osteria.

Senonché le confessioni liriche per lo più sono rivelatrici, si, ma non strettamente impegnative e facilmente ritrattabili. Stufo del tono elegiaco, il poeta si mostra gelosissimo della maestà e perfino dell'espansione dell'impero. Cosi anche il suo tenore di vita è tuttaltro che confacente con le sue meditazioni. Strenuo ufficiale d'esercito, combattente ardito,.mentre proclama ad alta voce d'aborrire la guerra, prende sollazzo inebriandosi delle sanguinose avventure della guerriglia caucasica. Audace araldo

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della libertà, non si sente di legarsi in amicizia con i liberali. Odiatore della servitù della gleba che disonora il popolo, disprezzatore del comune asservimento di tutti i ceti sotto il giogo d'uno stupido regime poliziesco e dispotico, presago del «di nero» d'una orrenda rivoluzione, distruttrice del trono, è ben lungi dall'ammirare i principii dell' '89 o dal far eco ai seguaci della sinistra hegeliana. Non cela le sue simpatie per il reggimento monarchico; tiene in pregio la vera e genuina aristocrazia, non schiava, ne fondata sulla schiavitù; appoggia le critiche slavofile alla civiltà occidentale. Nel campo religioso il ribelle trova occasionalmente accenti d'una fervida e commossa devozione, che s'esprime in forme tradizionali della pietà ortodossa.

Ripiegato su se stesso, disgustato, nonconformista per dispetto all'ambiente e per odio alla decadenza dei tempi in cui vive, deplora il distacco del poeta contemporaneo dalle moltitudini, paragonandolo ad un pugnale damaschino, ben temprato e provato in lotte a corpo a corpo, ma da un pezzo fuori d'uso ed inoffensivo, pregiato solo per l'opera dell'orefice che ne ha cesellate l'elsa e la guaina. Corrotto dal secolo effeminato e degenere, che lo mette in non cale, il poeta dei nuovi tempi, accomodandosi all'andazzo, s'è giocata la sua primogenitura e s'è alienato dal suo prototipo, da quel vate il cui carme nei giorni lontani faceva rabbrividire le folle «come un soffio divino», da quell'aedo la cui voce era necessaria all'antica comunità «come la coppa ai festini, come l'incenso agli altari, come il campanone di piazza, nunzio delle grandi solennità e delle grandi sciagure».

Tali erano i vincoli ideali che riallacciavano colui che di buona ragione esule si chiamava al suo popolo, legami sottili, tessuti di nostalgie e di rammarichi, appelli non abbastanza imperiosi per rompere l'incanto della solitudine in cui si risvegliava e prendeva volo l'altra anima dell'indomito, quella senza patria e, per dirla con lui, «senza timone», non più legata a nulla di reale al mondo, sfrenata come la tormenta che spazza le cime nevose del Caucaso, anima in pena, librantesi tra il cielo e la terra sulle ali erranti, come il suo Dèmone, ed assorta, come questi, nella contemplazione dei propri abissi.

V.

Un isolamento spirituale, nutrito dal doppio rancore ch'egli portava tacitamente a Dio, apertamente al gregge umano, nel nome della sovrana dignità dell'Uomo, umiliata dall'ira divina e tradita dalla serva creatura, ecco la cerchia in cui si dibatteva il prigioniero del proprio vaneggiante orgoglio.

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Donde sgorgò una cosi raccapricciante visione del mondo? In veste d'una immaginazione congenere a certe mitologie apocrife, tuttora superstiti, d'origine manichea, essa esprime la riflessione del poeta intorno ai sentimenti cui s'era dato in balia. La speculazione derivò spontanea da un fatto psicologico, la cui spegazione rimarrà per sempre in forse. Possibile è difatti, a mo' di dire, che sotto il decoro pomposo del dolore universale si nascondesse, sotterrata viva nelle latebre dell'io incosciente, la miseria umana di qualche obbrobrio non risanato, d'un oltraggio inulto, d'una rinuncia forzata; possibilissimo, seppure paradossale, che la superbia titanica non fosse altro che un travestimento del complesso dell'inferiorità, sempre combattuto, non mai superato. Comunque, la seduzione luciferina (poiché tale la definiva colui stesso che si confessava sedotto), aveva ottenebrata questa vita prima che l'intelletto riuscisse ad assottigliarne la dialettica. Una oscura irrequietezza ed angoscia dell'animo oppresso e sedizioso a un tempo avrà anticipato un qualsiasi suggrerimento letterario: precorrendo Caino, il giovanotto pare avesse già sulle labbra un si bell'e pronto alle sofisticherie e provocazioni degli insorti byroniani.

VI.

La brama smaniosa, invadente, l'anima chiusa nella propria solitudine, di sciogliersi dai vincoli che la legano all'essere altrui, esula dall'ambito della psiche russa, a meno che provenga da un disfacimento completo e disperato della fede. L'immaginazione popolare le da la sembianza del tiranno della fiaba che «ne di Dio aveva timore, ne dinanzi agli uomini pudore». Tale la concepisce e la descrive anche Dostoèvskij in Delitto e Castigo, dando retta alla voce del suo popolo convinto che lo straniarsi dalla comunanza cristiana, qualora si tratti d'un grave caso di coscienza, equivalga al distacco da Dio. Il nichilista ambizioso, ritratto nel romanzo, è appunto un esponente di quella rivolta assoluta che è come il polo negativo dell'ardore religioso proprio della sua nazione. Il che non è certo il caso del nostro altezzoso romantico che da vassallo ribelle s'oppone al Sovrano celeste, riconosciuto e sfidato come tale.

Questo tipo di soverchia affermazione dell'io autonomo è un prodotto del secolare individualismo occidentale; nell'Ottocento, nonostante il prestigio di Byron, esso pareva antiquato. Erroneamente cercò Vladimir Solov'ev di stabilirne l'affinità col postulato del Superuomo che Friedrich Nietzsche architettò sulle premesse dell'evoluzione biologica, vista attraverso la demenza estatica dell'ateo Kirìllov, uno dei personaggi più significativi del romanzo I dèmoni, secondo il quale, ove Iddio non vi sia più, tocchi all'uomo farsi dio. Contrarie sono entrambe le concezioni: l'una

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protesa verso l'avvenire, in cui la linea ascendente dello sviluppo dell' homo sapiens lo condurrebbe necessariamente all'agognato apice; l'altra retrospettiva e spiritualistica, rivendicatrice dello stato originario di quel semidio decaduto che è l'Uomo. Poiché, per quanto fossero gravi gli errori dell'orgoglio romantico, al poeta spetta di diritto il merito d'essere stato nll'epoca del positivismo uno dei più convinti assertori del valore ontologico della personalità umana. Ne poggia quell'orgoglio stesso sopra una stolta ignoranza della miseria dell'uomo quale è, cosicché nel processo del Nostro vi è luogo d'assegnare a Pascal la parte dell'avvocato di Dio: «La grandeur de l'homme est grande en ce qui'il se connaît misérable... Toutes ces misères-là prouvent sa grandeur. Ce soni les misères de grand seigneur, les misères d'un roi dépossédé». Purtroppo, nell'anima esulcerata anche questo alto sentimento tornava blasfemo.

VII.

Risulta da vari cenni autobiografici, sparsi negli abbozzi d'opere incompiute, che gli odi del poeta e le sue fughe in regioni immaginarie risalgono agli albori della vita intellettuale del fanciullo precoce e aggrondato.

«Da quando aveva imparato a porre differenza fra il bene e il male, prescelse, per una inclinazione evidentemente congenita, la distruzione. Orgoglioso quanto bilioso, non seppe mai piegarsi, ne dimenticare le offese, Innanzi tempo, disavvezzo dai giochi infantili, àdito nel cuor suo dette al dubbio, avido devastatore. Diventò pensieroso; poi si mise a costruire un mondo in aria, ove il pensiero ubbidiente si sperdeva. Era nato sotto una stella malefica, con bramosie immensurabili, come l'infinito, che si disputavano il possesso della sua anima e gli avvelenavano la spensieratezza dei suoi giorni migliori. Esse aliavano sopra il suo capo, cingendolo d'un alone simile ad una corona regale; ma la corona scevra del potere gli pesava. Egli anelava all'incorporeità d'uno spirito, onde potesse fondersi colle nuvole del tramonto, amoreggiare con le onde, respirare con l'alito delle steppe, oppure, avvolto in nubi folgoranti, sfracellare con un solo colpo di fulmine l'intero creato. A farlo, per fortuna, non gli bastava la forza; e quanto al suo carattere, non mi propongo davvero di notomizzarlo da psicologo, a modo come un buongustaio s'appresta ad affettare un pasticcio con tartufi : lo prendano pure per un indemoniato, io non contraddico».

«Tutti sanno ciò che sia uno spirito: vita, forza, senso, voce, pensiero, qualsivoglia cosa ma senza corpo; varie ne sono le apparizioni; nei dipinti i dèmoni per lo più riescon brutti. Ben diverso io

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sempre immaginai l'avversario d'ogni moto d'animo pio e puro: un fantasma strapotente veniva a conturbare la mia mente giovanile. Fra altre visioni, come un rè altiero e traciturno, egli risplendeva d'una bellezza talmente dolce e penetrante da incutermi la paura, ed una ansietà mi stringeva il cuore. Per lunghi anni egli mi perseguitava cosi, ognora presente».

Non era stata l'immaginazione a dare le prime mosse al Lèrmontov romantico, bensì un modo singolare di percepire il mondo. L'arte sua si presenta alla disamina psicologica come uno strato superiore, più recente, ed in certo qual modo come appianamento e sfiguramento dell'esperienza intcriore primitiva. Quella che dapprima gli appari era una realtà a due facce, in cui le visioni di veglia e di dormiveglia si rilevavano a vicenda o si compenetravano. Continuamente intento a spiare segni e tracce della presenza in ogni luogo d'agenti invisibili e della cooperazione loro in ogni atto della vita, il fanciullo, poi l'adolescente s'illudeva di vivere una doppia vita in contatto segreto con un piano soprannaturale dell'esistenza, prossimamente aderente alle condizioni terrene. Quando la nebbia mattutina si dissipò, ne rimase la propensione dell'adulto a referire le contingenze strane ed impreviste della vita all'intervento di forze occulte, ciò ch'egli chiamava «fatalismo», andandogli a gusto il color orientale del concetto equivoco che l'incitava a correr la sorte. E come ogni concentrazione spontanea, intensa, persistente, fa supporre il germogliare d'una facoltà nascosta che cerchi in tal guisa d'attuarsi, non ci sorprendono in questa vita taluni casi d'una indubbia divinazione: basti ricordare l'elegia in cui diceva di vedere se stesso giacente ferito mortalmente al petto in un burrone dell'alta montagna: trascorsi pochi mesi, la tragica visione di punto in punto s'avverò.

VIII.

Cotale percezione delle cose, pur non avendo per se stessa nulla a vedere con le categorie estetiche, riesce facilmente romantica, non appena riflessa nello specchio fluido della fantasia. Questa, proteiforme, si trasmuta docile, e rigogliosa lussureggia; quella immutata testifica ciò che vede, finché non si sia spenta. In un'altra epoca il Nostro sarebbe forse stato un visionario, un indovino, uno di quei vati cui invidiava il dominio sulle folle. Costoro, fedeli, a parer suo, alla vera vocazione del poeta, non facevano ancora commercio dei loro intimi tormenti e rapimenti, esibendoli alla curiosità d'un pubblico indifferente e distratto. Il poeta moderno è costretto a compromessi e reticenze; gli è diventata irraggiungibile l'adeguatezza dei canti che compone alle sue voci intcriori, oracoli oscuri ed

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incoerenti della divinità ispiratrice: oserebbe egli forse condurre la sua sublime amica, invasata e furente, al convito insulso? Il volgo applaude o fischia il poeta come un istrione: tristo mestiere! Meglio vale spender la vita in futili cure, sprecarla in bassi piaceri, rovesciare ad un tratto la coppa avvelenata! Il romantico rabbioso getta in faccia alla plebe mondana un «verso ferreo, suffuso di fiele»: facit indignatio versum. Non gli viene in mente che il poeta, quale lo voleva il genio sereno di Pùskin, abbia nelle epoche posteriori a quella dei vati primordiali a suo carico un compito diverso dall'antico vaticinio, ma non meno sacro di esso, anzi più caro alle Muse, e che questo compito sia l'Arte. È significativo però che un neoromantico russo dei primi decenni del Novecento, Aleksàndr Blok, chiami «inferno artistico» quella vedovanza del poeta veggente, quando sparite le visioni rivelatrici dei primi giorni egli si trovi condannato a rispecchiare in opere d'arte le disiecta membra d'un mondo uscito dai cardini e spezzato in frantumi, multicolore si, ma senza nesso e senza nume.

Sotto questo aspetto il romanticismo lermontoviano si definisce come scissione fra le due potenze del poeta, anzi come predominio di quella delle due che tende ad una espressione immediata su l'altra orientata verso l'obiettivazione rappresentativa, mentre come reazione contro tale predominio subentra un terzo elemento, quello del realismo. E nel chiarore calmo e freddo della prosa realistica si rivela in lui all'improvviso un gran novelliere, maestro di stile narrativo forte ed equilibrato, osservatore acuto della vita, conoscitore del cuore umano. La torbidezza romantica, se non è del tutto superata, è ben celata; ne sono rimasti, quali segni della schiatta, solo una certa frammentarietà dell'esposizione e talvolta un sorriso fuggitivo d'ironia amara.

IX.

Per quanto attutila e velata sia la parte del soprannaturale nella poesia lermontoviana (all'infuori, s'intende, del mito di Dèmone), nondimeno a chi s'abbandoni al fascino ch'essa esercita, pare talvolta di ritrovarsi in un'atmosfera misteriosamente animata, pregna di voci e d'armonie simili agli echi confusi d'una musica or ora ammutolita: come se l'avvicinamento del curioso avesse spaurita la schiera di sudditi alati d'Ariele, agile brigata cooperante di nascosto al tessitore d'arcani sogni, solo in parte suscettibili d'incarnarsi nel verbo umano. Il canto del poeta pare scortato e sorretto da un concento di spiriti soci, coi quali colui che canta viva in una segreta ed indisturbata dimestichezza.

La poesia inglese sola produce alle volte cotale effetto ; nelle risonanze aeree di questa l'ascoltatore sensibile riconosce tuttora l'antico retaggio

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dell'animismo e magismo celtico. Come mai potrebbero simili accenti rivibrare nelle melodie d'un poeta russo dei tempi moderni? Eppure, allorché questi, stanco delle vicende e delusioni dell'esistenza individuale, anela ad addormentarsi senza risveglio in un letargo beatifico, blandamente cullato dall'afflusso continuo di forze vitali, sotto una quercia favolosa, sempre verdeggiante ed amorosamente canora, non è forse la visione dell'albero cosmico dei Druidi che viene magicamente evocata nella nostra immaginazione?

La famiglia Lèrmontov, d'origine scozzese, s'era stabilita in Russia nel Seicento, ma non aveva mai dimenticato lo splendore medioevale della stirpe, uscita ricca e potente dalle lotte fra Malcoim e Macbeth nel secolo XI. Il giovane poeta desiava venir trasmutato in un corvo, per poter visitare i castelli in rovina sui colli nebbiosi e le squallide tombe dei suoi antenati d'oltremare. Tra questi aveva goduto nel secolo XIII una grande fama, come rimatore e indovino, Tommaso Lermont (ossia Learmont), signore del castello Erseldoune, nei pressi della città e del convento di Meirose, al confine meridionale della Scozia. Walter Scott lo glorificò nel poema intitolato Thomas thè Rhymer. Secondo la leggenda, Tommaso, ancora adolescente, era stato iniziato all'arte magica dalle fate; aveva l'abitudine di radunare la gente attorno ad un albero secolare, sotto di cui stava seduto recitando le sue ballate o presagendo l'avvenire; predisse fra altre cose la morte, inopinatamente avvenuta, d'Alfredo III, rè di Scozia; in fin di vita segui due cervi bianchi, accorsi per coglierlo nel reame delle fate, e scomparve con essi per sempre nelle selve. Vladimir Solov'ev stimava che il Nostro avesse in comune col suo proavo la vena poetica e una doppia esistenza enigmatica. Appunto: anche a lui furono le fate maestre e i silfi amici.

X.

«Pernottò un'aurea nuvola sul seno d'uno scoglio gigante fino all'alba; di buon mattino ella riprese gaia il vago volo per il cielo azzurro». Il poeta s'attrista immedesimandosi al tetro sasso, rallegrato per un istante e poi restituito alla pristina desolazione: dispera egli di trovar pace e riscatto nelle carezze fuggitive della Musa consolatrice? Le fantasime romantiche avvolgevano le orride cime della solitudine lermontoviana come un manto di nubi; e le nubi passavano cinte di bagliori e di fólgori, mentre essa immota rimaneva, circoscritta nel proprio reame eterogeneo ed apparentemente incommensurabile con qualsiasi figurazione. «Il verso misurato e la parola gelida» non sembravano atti a dare sfogo alla tensione sovrumana dell'animo in una creazione liberatrice e purificatrice. L'arte sua si

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ricusava di esprimere adeguatamente la sua esperienza intima ne prometteva alcuna catarsi. Il valore estetico di tale arte, sia pure dotata d'una potenza magica, è ovviamente disputabile. Come valutare una forma che si rinneghi e si sciolga in guisa di nuvola? Eppure la perfezione è resplendentia formae, come decretarono sapientemente gli scolastici indagando quale fosse ratio pulcrì. È forse appunto l'imperfezione che costituisce in modo irrazionale la «ragion di bellezza», cioè il principio estetico, del romanticismo?

Comunque, un'imperfezione sarebbe il deviamento da una certa norma intriseca del processo creativo, inderogabile a tal segno da togliere all'opera creata in caso di trasgressione la prerogativa d'una consistenza in sé, emancipata dal proprio creatore. Si tratta d'una deficienza della forma inferiore, cui nessun garbo di quella esteriore può rimediare. Ma che cosa è codesta forma intcriore?

Come in certe vecchie scuole di filosofia veniva nettamente distinta natura naturans dalla natura naturata, in simil modo noi, nel campo dell'arte, facciamo distinzione tra la forma esteriore, ossia formata, del lavoro compiuto e il concetto formativo, presente alla mente dell'artista quale canone e modello della futura opera, e questo concetto o modello etereo (eídolon) dirsi può forma formans, perché è l'idea fattrice dell'insieme e delle singole parti di essa. Forma formata sarà dunque quel «marmo solo» del famoso sonetto michelangelesco che «in sé circoscrive col suo soverchio il concetto (cioè la forma formatrice) dell'ottimo artista». Infatti, più aderente è la forma formata al concetto bell'e finito, e pili s'avvicina l'opera alla perfezione. Ne c'è in essa alcun altro «contenuto» se non il detto concetto, ossia forma formans, che prima dell'espressione in verbo o marmo, in suoni o colori esprime già integralmente in ispirilo tutta la pienezza e l'unicità dell'intuizione artistica generatrice. Anche nella poesia lirica, affinchè sia perfetta e capace d'eternare l'attimo, cioè di fissarne il valore imperituro, è necessario questo atto d'abnegazione che consta nell'alienarsi del poeta da se stesso, per rivivere purificato nell'immagine ideale, pronta a reggere le sonorità del canto.

Orbene, proprio della maniera prediletta dai romantici, cui sta a cuore innanzi tutto l'immediatezza dell'espressione, è il ridurre la forma formatrice a pochi lineamenti, come hanno in uso di farlo gli improvvisatori, il lasciarla pertanto incompiuta ed informe, anzi il sostituirle addirittura qualche aspetto del proprio intimo io; e questo prorompe in proiezioni contingenti e frammentarie, le quali, ancorché colpiscano l'immaginazione degli ascoltatori e li commuovano, non esprimono tuttavia che vaghe aspirazioni e volizioni di quello inesplorato io. Invece un poeta dimentico di sé in cerca d'una bellezza che lo trascenda raggiunge con miglior

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successo la medesima mèta, quella cioè di lasciare al mondo un suo nuovo e insostituibile messaggio. Vogliono costoro tramandare ed interpretare le voci del loro tenebroso pelago, piuttosto che pescare in fondo ad esso qualche rara perla; ma il mare, custode geloso del suo mistero, non porta al lido che onde amare, alghe marine e variopinte conchiglie.

XI.

Chi cerchi d'individuare il vero viso di Lèrmontov, non deve attenersi solamente a quel poco che gli fu concesso di dire al mondo. Le sue rime danno a divederne i lineamenti, ma non a misurare la potenza del suo animo. Pili grande era la statura dell'uomo intcriore di quella del rimatore romantico, e più mesta del lamento proferito la sua muta mestizia, seppure altrimenti consolata che dalle carezze d'una nuvoletta infocata o dalla malia degli spiriti del canto. La sua rocca solitària, più formidabile di quanto appariva tra le nubi, era frequentata, ma non posseduta dai dèmoni, che si volgevano in fuga non appena s'era fatto vivo «del celestiale esercito il migliore guerriero a fronte aperta», San Michele, solito discendere in vetta alla rupe ogni qualvolta il poeta invocava la Santissima Vergine.

Poiché questi era un cultore fedele di Maria. Alla protezione della Madre di Dio fino all'ultimo respiro egli raccomanda in una preghiera palpitante di fervore pio e di tenerezza del cuore non già la propria anima derelitta ed inselvatichita, ma quella eletta e pura d'una vergine innocente, senza scudo contro la malvagità del mondo. L'Ave Maria è per lui una fonte inesausta di devozione commossa e di conforto; «v'è una forza, piena di Grazia, nell'armonia delle parole che infondono vita, ed in esse spira una soavità imperscrutabile, una dolcezza santa».

XII.

Adombrata, non espressa rimase una significativa esperienza della vita intcriore del poeta, la quale, unita al culto mariano, avrebbe potuto correggere e rasserenare alquanto la sua triste visione del mondo, se egli non l'avesse interpretata da romantico e quindi relegata senz'altro nel regno dei sogni. Intendiamo la sua precoce, quantunque vaga e titubante, intuizione di quel principio cosmico che i letterati dopo Goethe sono avvezzi a chiamare l'Eterno Femminino, usando un vocabolo altrettanto ambiguo, quanto oscuro ed indistinto è il concetto cui deve corrispondere., mentre Novalis, istruito da Jacopo Boehme, venerava l'entità mistica, accennata alla fine del Faust, sotto l'antico e sacro nome di Vergine Sofia. Noi

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definiremmo l'idea di Sofia, analogamente a quel che fu detto avanti sull'arte, come la forma formatrice dell'universo nell'Intelletto Divino.

Ignorava il fanciullo, rapito in estasi, quale essere luminoso egli amasse sciogliendosi in lacrime, allorché nel parco autunnale del suo nido d'infanzia, sul calar del sole, l'Ignota gli apparve «con gli occhi di fuoco azzurro, con un sorriso vermiglio, come lo splendore del giorno nascente dietro un bosco». Il poeta paragona questo ricordo ad un isolotto smaltato di fiori e rimasto intatto nel deserto oceanico del passato. Aggiunge, che non l'abbiano devastato nel corso degli anni «ne le tempeste delle passioni, ne i dubbi molesti». Le passioni l'avrebbero potuto offuscare, si, quel ricordo lucente, ma che c'entrano i dubbi? Non era egli dunque sicuro che quella che gli era apparsa fosse stata soltanto «una creatura dei suoi sogni» ? Che la veda all'ora serale cinta dall'aurora di mattino, è piuttosto un indizio della mente allucinante. Anteriori d'un decennio a questa elegia, scritta nel 1840, sono le stanze, un po' balbettanti, in lode d'una persona denominata «Vergine Celeste»: in questi versi, prescindendo dalla reminiscenza del 34° sonetto del Petrarca in morte di Laura («levommi il mio pensier»), pare riviva lo stupore del fanciullo attonito e commosso davanti all'epifania d'una bellezza non di questo mondo, davanti a quegli occhi azzurri riflettenti la luce del «terzo cielo», davanti a quel sorriso di saluto ed insieme di rimprovero che gli fece sentire vicino un alito della divinità. Dopo un mezzo secolo Vladimir Solov'ev, narrando la visione che egli ebbe nel deserto egiziano, descrive gli occhi e il sorriso di quella che dice Sofia con le parole di Lèrmontov sopra citate.

E questo, certamente, non proverebbe nulla, in favore dell'interpretazione sofiana dell'elegia in questione, se alcuni versi del Dèmone e l'analisi del mito stesso del poema non evocassero la figurazione biblica della Sapienza Divina.

XIII.

Alcuni versi del Dèmone sono come echi lontani del Libro dei Proverbi. Dice la Sapienza: «II Signore mi ebbe con sé dall'inizio delle sue imprese, innanzi che alcuna cosa facesse, da principio; ab aeterno sono stata costituita, anteriormente alla formazione della terra; quando disponeva i cieli, ero presente; quando fissava le atmosfere di sopra, ero presente» (Proverà. VIII, 22, 23, 27, 28). Ed ecco ciò che il Dèmone dice a Tamara: «L'immagine tua era impressa nel mio animo fin dall'inizio del mondo; essa aleggiava dinanzi a me nei deserti dell'etere sempiterno». Sapienza o no, quella che il poeta vuole significare è l'idea d'un Essere femminile preesistente all'universo. Il Dèmone, ancore abitatore del cielo, non

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s'appagava delle delizie del paradiso, perché non lo trovava fra gli spiriti beati: neppure a questi esso era stato rivelato, ma egli lo presentiva anche nascosto nel grembo di Dio. Egli solo comprende la vera essenza, il valore arcano di colei ch'egli ama, perché solo possiede la conoscenza delle cose ed intuisce la sapienza non palesata. Il mondo gli appare vuoto, esanime, discordante senza di lei, poiché è costei che lo conduce a perfezione ed infonde nello spirito la gioia delle cose belle. Dice infatti la Sapienza: «Col Signore io ero disponendo tutte le cose e mi deliziavo trastullandomi dinanzi a Lui continuamente, trastullandomi nel cerchio della terra, e le mie delizie essere coi figli degli uomini» (Prov. VIII, 30). In unione con lei, possedendola, il Dèmone avrebbe raggiunta la pienezza che gli manca e si sarebbe riconciliato perfino col Creatore, che la tiene gelosamente in sua potestà. In unione con lui, principe di questo mondo, ella sarebbe effettivamente la regina del mondo, e la sua pristina dimora (Prov. IX, I: «La Sapienza si è fabbricata una casa») le parrebbe oscura a paragone della nuova ch'egli le avrebbe edificata. D'altronde si troverebbe se stessa, quale era prima della sua umile e precaria incarnazione terrena. (Anche nei sogni mistici di Novalis la giovinetta defunta, che era sua fidanzata e portava il nome di Sofia, si confonde con la celestiale omonima). Interpretato in tal modo, il mito del poema cessa di essere ingenuo, incoerente, contraddittorio, e veramente satanica appare la brama del Dèmone di strappare il palladio dell'onnipotenza — la Sapienza Divina — al Creatore.

Con tutto ciò non riteniamo dimostrata una derivazione diretta del concetto lermontoviano dalla Bibbia; ma l'immagine della Sapienza in una qualsiasi delle sue numerose metamorfosi in diverse mitologie stava indubbiamente davanti alla mente del poeta. Trattazioni dell'argomento nella letteratura dell'epoca non erano rare, ed egli fu sempre curiosissimo delle speculazioni misteriosofìche. Certo è che dall'inizio dell'era cristiana nessuna altra entità femminile fu mai concepita come esistente ab aeterno tranne quella, sempre una nella sua essenza impenetrabile, qualunque nuovo nome o simbolo o significato cosmogonico le fosse attribuito, quale Chokmah dei cabalisti, o Achamoth dei gnostici, o la Vergine della Luce dei mandei, o la Rosa mistica delle poesie sufitiche e delle leggende medioevali europee.

XIV.

Mentre quel che costituisce l'aspetto romantico dell'opera di Lèrmontov era dovuto agli impulsi che venivano dall'Occidente, v'è un altro aspetto della sua complessa personalità, il quale lo lega intimamente alla secolare formazione spirituale del suo popolo, imbevuto di mistica orientale

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essenzialmente platonica. Platonismo si può designare quella forma mentis che si manifesta nel Nostro ogni qualvolta il tumulto delle passioni non disturba la sua pace contemplativa. Va da sé che intendiamo per indole platonica non già l'adesione alla dottrina di cui egli neppure aveva conoscenza abbastanza precisa, bensì la facoltà innata di vedere attorno a tutte le cose come un alone dell'idea eterna, vale a dire il dono d'intuire universalia ante rem. La bella poesia intitolata L'angelo — sospiro di nostalgia di un'anima memore delle canzoni cantatele dall'angelo che l'aveva portata al mondo — mostra l'autore diciassettenne praticamente iniziato alle speculazioni sopra la preesistenza e l'anamnesi. Il mito di «Dèmone» è basato, come ci siamo industriati a dimostrarlo, sulla contemplazione interiore dell'archetipo della Vergine celeste generata ab aeterno. Cosi anch'egli entra indirettamente, partecipe del retaggio nazionale, nella filiazione dei fedeli di Sofia. Per ogni filosofo tipicamente russo essa è, per dirla con VI. Solov'ev, l'attuazione teandrica dell'unitotalità; per ogni mistico della terra russa essa è l'unione compiuta della creatura col Verbo Divino e, come tale, non esula da questo mondo, ma è immediatamente visibile all'occhio puro. Ben lungi era Lèrmontov dalla comprensione di tali cose, ma in certo qual modo sembra averle presentite insieme col suo popolo. La pili originale creazione del genio russo fin dal secolo XI in poi è l'invenzione dei tipi figurativi della Sapienza Divina, rappresentata su affreschi ed icone in una sfera inferiore a quella di Cristo e superiore a quella degli angeli, quale regina alata ed incoronata.

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Вяч. И. Иванов. Собрание сочинений. Т.4. Брюссель, 1987, С. 351—366
© Vjatcheslav Ivanov Research Center in Rome, 2010